13 aprile 2017

Aspetti e caratteristiche non verbali del linguaggio vocale


1. Comunicazione vocale non verbale.

1.1. La comunicazione preverbale.
Da uno studio di zoologia della metà degli anni Quaranta risulta che l’apprendimento degli uccelli canori ha inizio fin dalla covata; una particolare iniziazione che si effettua con la trasmissione dei suoni emessi dalla madre attraverso il guscio dell’uovo in cui cresce il futuro uccellino.
Un successivo esperimento di Konrad Lorenz, il quale in assenza di un’anatra in funzione materna, cominciò a parlare regolarmente ad una covata di anatroccoli che al momento dell’apertura dei gusci dimostravano una clamorosa sensibilizzazione rispetto alla voce dello studioso, rivelò un vero e proprio fenomeno di tropismo provocato dalla voce umana.
Fu solo in seguito che, dal pioniere della neurologia della nutrizione André Thomas, arrivò una prova importante: la “prova del nome”. Prima che il bambino abbia dieci giorni lo si fa sedere su un tavolo e si pronuncia il suo nome. Il bimbo non manifesta alcuna reazione finché non è la madre a parlare; quando quest’ultima pronuncia il suo nome, sposta il corpo verso di lei e cade di lato. Si tratta, assicura André Thomas, di un fatto assolutamente costante. Evidentemente anche qui siamo in presenza di un tropismo sonoro.
Da queste ricerche sembra dunque piuttosto evidente che i processi che presiedono all’udito, come quelli che devono indurre il linguaggio, sono determinati molto prima della nascita. Se un messaggio sonoro può oltrepassare un guscio d’uovo al punto da colpire il futuro uccellino e imprimere in lui il linguaggio della sua specie, la voce materna umana può certamente fare altrettanto; carica di affettività e di valenze semantiche, dovrebbe avere un impatto anche più potente, poiché la comunicazione fra madre e feto è diretta. Il fatto che il feto senta, non significa però che percepisca i suoni allo stesso modo dell’essere umano finito. L’evoluzione della funzione uditiva è un processo lungo e complesso.
Il diaframma uditivo si apre al mondo sonoro progressivamente, attorno ad un asse che si situa fra i 300 e gli 800 Hertz. Il bambino recupera poco alla volta una tensione dei muscoli dell’orecchio medio (il timpano e la staffa) che gli permetterà di ritrovare una percezione che aveva conosciuto durante tutta la sua vita sonora prenatale. Il neonato riconosce la voce che lo aveva intrattenuto così a lungo nella vita intrauterina; il piccolo ricorda le inflessioni, il ritmo e saprà aprirsi gradualmente ad un nuovo modo di comunicare.
Questo nutrimento vocale è necessario alla strutturazione del neonato come la poppata che egli assorbe. La voce che il bambino attende con la stessa impazienza con cui aspetta il biberon verrà presto associata al viso materno e provocherà delle risposte, dei gridolini di gioia o di dolore. L’embrione incamera dunque fin dal concepimento delle informazioni, che recupererà più tardi nell’insieme del suo sistema uditivo. Anche un’indagine superficiale sulle abitudini comportamentali dell’uomo, rivela che le strutture più arcaiche corrispondono ad acquisizioni di questo vissuto prenatale. Nella vita intrauterina, si instaura dunque una prima relazione essenziale col mondo esterno e tutto ciò che esso rappresenta sul piano della comunicazione sonora.
Questa immersione nell’universo prenatale ci permette di capire cos’è esattamente questo bisogno di comunicare che è all’origine del linguaggio. Per l’individuo si tratta di conservare, o di ritrovare, la relazione che aveva con l’ambiente materno prima della nascita. L’avventura del linguaggio acquista così un vero significato sul piano della comunicazione degli esseri fra loro. Le prime parole sono evidentemente rivolte alla madre, in un dialogo che prosegue quello avviato nella vita intrauterina. Il balbettio del neonato non è che un glossario fatto di semplici giochi sonori che manifestano un forte stimolo a comunicare.
Per questo possiamo dire che la fase di sviluppo precedente all’acquisizione del linguaggio è una fase prelinguistica, ma non precomunicativa; nel senso che in essa sono già presenti diverse modalità di comunicazione gestuali e vocali attraverso le quali il bambino si relaziona con l’ambiente circostante assai prima di essere in grado di parlare. Esistono numerosi comportamenti non linguistici che vengono utilizzati dal bambino per comunicare e che solo lentamente e solo in parte vengono poi sostituiti dalla comunicazione linguistica. Per diversi mesi il bambino sa comunicare, anche se ancora non sa parlare.
Non esistono molte ricerche sulla comunicazione nel primo anno di vita; in genere sia gli psicologi sia gli psicolinguisti si sono occupati del problema in modo sporadico e frammentario. Tra i primi, gli studiosi del comportamento sociale umano hanno analizzato, senza una prospettiva unitaria, singoli aspetti della comunicazione non verbale evitando di prendere in considerazione gli stessi nessi tra quest’ultima e la comunicazione linguistica. I secondi invece hanno studiato in genere la fase prelinguistica nello sviluppo del bambino come un periodo di semplice preparazione all’uso del linguaggio (sviluppo fonetico e articolatorio) anziché come una fase caratterizzata dal prevalere di comportamenti comunicativi di tipo non verbale.
La comunicazione, sia verbale che non verbale, costituisce un aspetto essenziale del comportamento sociale umano ed è stata perciò oggetto di studio delle scienze che si occupano del “sociale” nell’uomo. Da parte di alcuni etologi (Eibl – Eibensfeldt, 1970) si è giunti ad affermare l’esistenza di una “pulsione sociativa” la quale, al pari della pulsione sessuale, assicura la messa in opera da parte del singolo organismo dei mezzi atti a fondare un legame e ad acquietare l’aggressività. Il bambino appare dunque dotato di alcune predisposizioni e capacità che hanno una base del tutto innata, che sono cioè trasmesse come parte del patrimonio genetico della specie e rappresentano quindi il risultato degli adattamenti evolutivi della specie stessa. Tra questi comportamenti a base innata ve ne sono alcuni di tipo sociale e all’interno della classe dei comportamenti sociali a base innata si possono isolare i comportamenti sociali di tipo più specificamente comunicativo, in quanto si sono evoluti per svolgere una particolare funzione adattiva, che è quella di fungere da segnali per i con-specifici. Tra questi comportamenti più propriamente comunicativi troviamo: schemi motori come il pianto, il sorriso, la vocalizzazione, e tendenze innate a rispondere a determinati modelli percettivi, anche complessi, come ad esempio il volto e la voce umani. Entrambi questi tipi di comportamento, motori e percettivi, attraversano nel corso dell’ontogenesi tappe di sviluppo assai simili tra loro, che fanno pensare ad una forte base maturativa: si tratta all’origine di semplici movimenti riflessi, che diventano poi risposte selettive e infine comportamenti corretti secondo uno scopo. Il pianto, il sorriso e la vocalizzazione sono comportamenti la cui funzione primaria sembra essere quella di segnalare a chi si prende cura del bambino i particolari stati e bisogni di quest’ultimo.

I primi suoni di vocalizzazione fanno la loro comparsa nel corso della graduale evoluzione del sorriso da semplice movimento riflesso a risposta sociale selettiva. Durante la terza settimana di vita essi sono funzionalmente e morfologicamente correlati al pianto, tanto è vero che di solito vengono prodotti immediatamente prima che il bambino cominci a piangere. E’ solo lentamente che questi suoni pre-pianto si dissociano dal loro contesto originario e cominciano a essere esercitati quando il bambino si trova in uno stato di benessere. Compaiono allora le prime “reazioni circolari” vocali; i nuovi suoni che il bambino ha scoperto casualmente mentre è sul punto di scoppiare a piangere (strilli, gorgolii, suoni “gaga” e “dada”) vengono ripetuti con evidente soddisfazione quando il bambino si trova chiaramente in uno stato di benessere. Verso la fine del secondo mese, seguono le prime imitazioni vocali, da intendersi essenzialmente nel senso di un’attiva “accomodazione” di schemi vocali che il bambino già possiede nel suo repertorio. E’ questa la base su cui si costruiscono le cosiddette “protoconversazioni” (Wolf, 1969): imitando i suoni prodotti dal bambino è possibile impegnarsi con lui in uno scambio che può comprendere da dieci a quindici vocalizzazioni. In tal modo le vocalizzazioni diventano la risposta privilegiata allo stimolo costituito dalla voce umana. E’ possibile dimostrare una quantità significativamente maggiore di vocalizzazioni quando il partner parla al bambino piuttosto che quando rimane in silenzio, inoltre già verso la fine della quinta settimana, la voce della madre risulta essere più efficace di qualsiasi altra voce nel provocare la vocalizzazione. A questo punto dello sviluppo sociale del bambino il sorriso e le vocalizzazioni costituiscono due delle forme più specifiche del comportamento di segnalazione che ha per effetto di avvicinare la madre al bambino e/o di mantenere e prolungare tale vicinanza. In definitiva sia le caratteristiche morfologiche esibite dal sorriso, dal pianto e dalla vocalizzazione, sia l’esistenza di un loro sviluppo secondo tappe ben definite nel bambino possono essere spiegati ipotizzando che si tratti di comportamenti i quali si sono evoluti proprio per svolgere la funzione di segnalare ai conspecifici (in questo caso soprattutto la madre) gli stati e i bisogni del bambino, acquisendo così un importante valore adattativo nel corso dell’evoluzione della specie.

1.2. Agli albori della comunicazione vocale.
Il comportamento umano è regolato nei suoi schemi generali da un sistema universale di riferimenti che fanno parte delle conoscenze innate e ci accomunano agli altri animali sociali.
L’Uomo comprende una serie di segnali ancor prima di aver sviluppato un’esperienza soggettiva in proposito. Gli individui della nostra specie si capiscono reciprocamente al di là delle differenze culturali e linguistiche. Esiste pertanto una grammatica universale del comportamento sociale umano.
Al contrario di altri animali che nella comunicazione fanno riferimento a situazioni contingenti, l’uomo può creare ex novo strategie comunicative ed agire in maniera del tutto originale. A queste regole filogeneticamente innate si aggiungono le convenzioni culturali.
La comunicazione umana si basa prevalentemente sul linguaggio verbale. Esso permette di acquisire un codice di comunicazione che consente di parlare di cose non solo presenti, ma anche passate o che devono ancora accadere e che immaginiamo.
Benché il linguaggio articolato sia la forma di comunicazione più complessa, la trasmissione di informazioni da un individuo all’altro non è una prerogativa umana e può avvenire secondo altre e complesse modalità. In un preciso momento del proprio ciclo vitale, qualsiasi organismo vivente, anche il meno evoluto e il più solitario, deve instaurare relazioni non necessariamente fisiche con altri individui.
Prima di analizzare le varie forme di comunicazione, è necessario definire cosa la comunicazione sia. Per comunicare bisogna essere almeno in due affinché si possa mettere in comune qualcosa di sé con un altro individuo. I due soggetti sono il mittente, ossia l’individuo che emette il messaggio e il destinatario cioè colui che lo riceve e lo decodifica . La comunicazione è quindi un trasferimento di informazioni in forma di feed-back, secondo lo schema seguente:
MITTENTE – MESSAGGIO – DESTINATARIO
DESTINATARIO – MESSAGGIO – MITTENTE
Il feed-back è rappresentato da ciò che il destinatario risponde, pertanto è molto importante fare attenzione ad esso poiché informa sull’efficacia del messaggio.
Alla base di ogni evento comunicativo vi è la produzione di segnali che, all’interno di un mezzo fisico (luce, aria, acqua, suolo, ecc…), raggiungono, in forma riconoscibile, le strutture sensoriali del soggetto ricevente (occhi, orecchie, recettori olfattivi, ecc…). Le principali modalità sensoriali sono quattro: chimica (gusto, olfatto), acustica, visiva e tattile. In ogni specie esiste una particolare gerarchia nell’importanza dei canali sensoriali e, di conseguenza, un diverso modo di integrare segnali di diversa natura.
La comunicazione acustica avviene attraverso l’emissione di suoni ed offre alcuni vantaggi. L’emissione dei segnali, infatti, richiede un basso dispendio di energia; il segnale si propaga in ogni direzione ad elevata velocità ed il suono può essere gestito consentendo la composizione di infiniti messaggi. Al contrario del segnale chimico, che può permanere per molto tempo, quello acustico si estingue in breve tempo e risulta pertanto necessario ripeterlo continuamente fino a quando il destinatario non comunica di averlo ricevuto.
Si ritiene che l’uso di suoni come mezzo di comunicazione derivi dall’emissione di segnali involontari, come i rumori di scavo, di alimentazione, idrodinamici, ecc… Le emissioni acustiche nel regno animale vengono utilizzate come segnale di disagio, repulsione, allarme, minaccia, aggressione, richiamo sessuale, delimitazione territoriale, richiesta di cibo, coordinamento, ecc… Negli invertebrati, nei pesci e nei rettili, la comunicazione acustica integra quella chimica e si riferisce a contesti precisi come la delimitazione del territorio ed il corteggiamento. Negli uccelli questo tipo di comunicazione raggiunge forme molto complesse in parte innate, in parte apprese per imprinting ed imitazione. Nei mammiferi i segnali acustici si estendono su un’ampia gamma di frequenze, dagli infrasuoni dei cetacei agli ultrasuoni dei chirotteri. La capacità di attribuire ad un suono un determinato significato è il primo passo per la creazione di un linguaggio simbolico e concettuale come quello umano.
A tale proposito, i cercopiteci hanno sviluppato allarmi differenziati per le varie tipologie di predatore. Esiste un segnale per indicare la minaccia di un serpente, uno per il leopardo ed uno per gli uccelli predatori. In tal modo l’allarme non comunica soltanto un generico stato di allerta e apprensione, ma indica il tipo di pericolo in relazione al quale si adottano specifici comportamenti. Ad esempio, se l’individuo sentinella comunica la presenza di un leopardo, il resto del gruppo si precipita sugli alberi; se invece si avvicina un rapace il gruppo si rannicchia a terra, nel fitto dell’erba. Registrando i tre allarmi e riproponendoli sperimentalmente ai cercopiteci, si sono riscontrati gli stessi comportamenti che si verificano in natura: questo dimostra la funzionalità del loro linguaggio.
Scimmie urlatrici (genere Alouatta), Gibboni e Siamanghi (famiglia Hylobatidae) si esibiscono in attività corali che svolgono l’ancestrale funzione di delimitazione del territorio e di richiamo sessuale. Nel caso dei Gibboni, recenti studi, condotti da T. Geissman, tendono a dimostrare anche una valenza sociale e culturale delle vocalizzazioni.
Le scimmie urlatrici possiedono un osso ioide grosso e dilatato, esattamente come le cartilagini tiroidee della laringe. Il Siamango presenta una sacca laringea che permette una vasta gamma di vocalizzazioni con toni decisamente alti.
Le Antropomorfe sono le scimmie filogeneticamente più vicine all’uomo. Condividiamo con lo Scimpanzé circa il 99% del patrimonio genetico. Il rapporto dei giovani Scimpanzé con il suono è molto particolare. Essi, per motivi fisiologici, non possono articolare i suoni, tuttavia indagano ripetutamente sulle capacità sonore insite negli atti di percuotere, pestare i piedi e battere le mani. Da adulti questa tendenza si manifesta con un tambureggiamento di gruppo, durante il quale gli individui si esibiscono in movimenti di ondeggiamento ed oscillazione che ricordano le nostre danze. La funzione di questo comportamento non è ben conosciuta, ma l’effetto che suscita è quello di eccitare scambievolmente i membri del gruppo. Anche nella nostra specie il tambureggiamento è la forma più immediata e diffusa di espressione musicale. Anche i cuccioli dell’uomo percuotono gli oggetti per scoprirne il suono.
Volendo focalizzare l’attenzione sul tema delle vocalizzazioni e comprendere il perché della differenza esistente tra Uomo e Scimmia, è necessario analizzare innanzitutto le strutture deputate alla fonazione.
Esse sono: le labbra, la lingua, la faringe e la laringe. Nel corso dell’evoluzione, come conseguenza del bipedismo, la laringe e l’osso ioide si sono ritirati verso il basso lungo il collo; in tal modo l’epiglottide ed il palato molle si trovano separati da uno spazio chiamato faringe. La faringe possiede un canale vocale ampio e lungo detto orofaringe .
Nelle Scimmie l’orofaringe manca ed è per questo che esse non possono articolare i suoni. La differenza tra Uomo e Scimmia non consiste nell’abilità umana ad emettere suoni, ma nel tipo di suoni emessi. Nelle nostra specie essi sono chiari distinti e articolati e sono prodotti dalle corde vocali situate nella laringe. La forma della cavità costituita dal complesso laringe, faringe e bocca, determina il suono delle vocali; il movimento della lingua e delle labbra consente di pronunciare le consonanti. Nelle Scimmie la vicinanza della lingua alla laringe e le caratteristiche della cavità buccale, consentono solo la produzione di suoni gutturali. Nei Babbuini i grugniti possono essere modulati dalle labbra e dalla lingua ottenendo così suoni simili alle nostre vocali.
Le strutture cerebrali coinvolte nella fonazione sono:
– l’area detta di Broca , collocata nell’emisfero sinistro anteriore (corteccia frontale) e deputata all’ espressione del linguaggio;
– l’area di Wernicke , collocata anch’essa nell’emisfero sinistro (a livello della corteccia temporale) e deputata alla comprensione dei linguaggio.
In nome dello strettissimo legame filogenetico e strutturale esistente tra Antropomorfe e Uomo, si è tentato di insegnare a queste scimmie un linguaggio basato su simboli equivalenti a parole e le regole necessarie per combinarli in maniera appropriata, per esprimere quindi dei concetti. I simboli utilizzati appartengono a due categorie: i gesti manuali (simili a quelli utilizzati nel linguaggio dei sordomuti) e i simboli grafici.
Gli Scimpanzé sono dunque in grado di apprendere i rudimenti del linguaggio, ci si chiede, pertanto, perché il linguaggio stesso non si sia evoluto presso di essi. Le ragioni devono probabilmente essere ricercate nell’ambiente. Per uno Scimpanzé che vive ai margini della foresta, esibirsi in vocalizzazioni prolungate non è un comportamento vantaggioso dal momento che, così facendo, oltre ai conspecifici, attirerebbe anche i predatori. In una situazione analoga devono essersi trovati anche i primi Ominidi; su di essi però, ha agito anche un’altra importante stimolazione che li ha spinti a sviluppare una vocalizzazione organizzata e cioè i bisogni alimentari.
La necessità di integrare la dieta vegetariana con proteine animali, ha richiesto che essi si dedicassero alla caccia. Gli Ominidi però non possedevano le caratteristiche fisiche di un predatore, non erano cioè dotati di mezzi offensivi come artigli o canini sviluppati. La caccia di gruppo, quindi, si è rivelata una buona strategia per uccidere i grossi erbivori.

Dopo una fase di sciacallaggio, in cui i nostri progenitori allontanavano i predatori con urla e sassi rubandogli la preda, si è assistito ad una vera e propria organizzazione dell’attività venatoria. Da questo momento in poi si verifica la divisione dei compiti tra i due sessi all’interno delle comunità: i maschi cacciano, le femmine accudiscono la prole e raccolgono i frutti della terra. A proposito della comunicazione visiva, questo tipo di pratica venatoria ha richiesto la coordinazione dei cacciatori nell’ambito del gruppo, ma questa si è ottenuta, oltre che con i gesti e gli sguardi, anche grazie all’uso di suoni dotati di un preciso significato, differenziale ed oggettivale.

1.3. Il linguaggio emozionale.
La voce è uno strumento estremamente utile e potente. E’ un importante mezzo di comunicazione e di espressione. La voce esprime le nostre emozioni attraverso mille sfumature; riesce a trasmettere gioia, tristezza, paura, collera, disprezzo, tenerezza, indipendentemente dal significato delle parole. Queste sfumature sono infinite e spesso le emozioni possono generare molta confusione e risultare poco riconoscibili proprio perché la voce è in grado di esprimere e comunicare una notevole varietà di situazioni emotive.
Da una ricerca condotta da Luigi Anolli e Rita Ciceri, emerge chiaramente che anche la frase più neutra, come ad esempio “Non è possibile, non ora” può assumere sfumature differenti a seconda di come viene detta. Nel corso dell’indagine, la frase è stata interpretata secondo diverse emozioni ed è stato chiesto a duecento persone di riconoscere quella caratterizzante. Il 65% del campione è riuscito ad individuare senza difficoltà ognuna delle emozioni. Tra tutte le più immediatamente riconoscibili sono state quelle negative: il 77% ha individuato la collera, il 73% la paura, il 70% la tristezza, mentre solo il 40% del campione è riuscito ad individuare la tenerezza.
Ecco, secondo la ricerca, quali sono i principali profili della voce che esprime le diverse emozioni.
Collera: ha un tono alto, una forte intensità e un’assenza di pause perché la voce viene buttata fuori di colpo. La voce di chi si arrabbia è tesa e piena.
Gioia: è la voce di chi sta bene, con un tono tendenzialmente alto, voce ampia, piena perché ha anche un’intensità elevata ed è abbastanza modulata, con un ritmo dai contorni arrotondati. La risonanza è bilanciata ed esprime proprio uno stato di benessere.
Paura: è sottile, molto sottile, oltremodo tesa, il tono è acuto; è una voce stretta e tremula. Esprime l’incapacità di far fronte alla minaccia.
Tristezza: ha un tono basso, un’intensità modesta, il ritmo è lento. E’ rilassata ma stretta, è la voce di chi è impotente, sopraffatto.
Disprezzo: ha alcune caratteristiche tipiche, la più evidente è la segmentazione delle sillabe. La voce del disprezzo, pur avendo una velocità normale, suddivide in sillabe.
Tenerezza: è ampia, distesa, con angoli arrotondati.
Viste le differenze principali non possiamo però dimenticare che la voce è anche ironia, ovvero è in grado di mostrare il contrasto tra ciò che diciamo e ciò che invece “intendiamo” dire. Il modo speciale con cui le parole vengono dette caratterizza il valore linguistico delle parole stesse. Se la voce comunica o tradisce le emozioni, attraverso la voce possiamo “leggere” le emozioni di chi ci sta accanto. Un’opportunità che in alcuni casi può essere utile. Riconoscere i bugiardi ad esempio non è difficile, le persone che mentono tendono ad alzare il tono della voce, ad aumentare le pause e interrompono spesso le parole.
Proseguendo nella disamina dei rapporti tra voce ed emozioni, possiamo ulteriormente affermare che esiste una stretta correlazione tra situazione emotiva, stato di attivazione muscolare e modalità di funzionamento dell’apparato vocale.
La riduzione del tono dell’umore, la stanchezza o anche più semplicemente la noia, la mancanza di motivazione, generano una riduzione del tono muscolare. I sintomi sono: ridotta forza adduttoria dei muscoli tiroaritenoidei, scarsi livelli di tensione longitudinale cordale, riduzione della frequenza di fonazione, rallentamento dell’eloquio e contenimento delle resistenze glottiche. La voce perde incisività e vivacità; l’individuo si ripiega su se stesso: parla meno, con minor intensità, toni meno acuti e con minor modulazione.
All’opposto, l’eccitazione, la sorpresa, il sovraccarico emotivo, l’attesa ansiosa, determinano un generale ipertono muscolare. Si verificano dunque tutt’altri sintomi: innalzamento della posizione laringea, allungamento delle corde relativo alla postura glottica, incremento delle forze adduttorie e irrigidimento del vocal-tract. La voce risulta schiarita e impoverita timbricamente, la respirazione è spesso troppo rapida e superficiale. Il soggetto si trova in un generale stato di ansia e di allerta.
E’ possibile avvertire quotidianamente il modo in cui le situazioni emotive che viviamo si riflettono sulla funzionalità dell’apparato fonatorio e in modo particolare sulla laringe.
La rabbia è forse l’emozione che meglio esemplifica il ruolo dello sfintere laringeo nella resa delle emozioni: questo sentimento è infatti caratterizzato da una vocalità particolare, nella quale la modalità elastica di adduzione cordale tende a sfumarsi in favore di una chiusura glottica di tipo francamente sfinterico, più salda e duratura. Ciò non stupisce se si considera come non esista sentimento “separante” più di questo; questa “separazione” è fisicamente rappresentata dall’incremento del tono adduttorio della muscolatura intrinseca, cui si associa, se lo stato emotivo è particolarmente intenso, il reclutamento del faringe medio che va ulteriormente a inibire il flusso dell’aria vibrante in direzione dell’esterno. L’incremento importante del tono dei muscoli tiroaritenoidei determina un notevole accorciamento delle corde, cui consegue incremento della loro massa. Contemporaneamente l’attivazione degli interaritenoidi produce avvicinamento delle aritenoidi con conseguente completa chiusura glottica. L’aumento delle resistenze glottiche che accompagna questi due eventi genera un’importante riduzione frequenziale, gravata da perturbazioni di segnale, un cambiamento di timbro glottico e una ridotta dinamica di intensità e frequenza. L’aggressività, inizialmente rivolta verso l’esterno, si traduce così in un’autoaggressione.
Una delle accezioni della rabbia, quella caratterizzata dal desiderio di ferire e colpire l’interlocutore, coinvolge la laringe ma non solo nel suo aspetto di sfintere. Tale emozione è accompagnata spesso da un assetto posturale in estensione. Il parlante inspira in modalità alto-medio toracica, spinge in avanti il mento e indietro e in alto il capo, attuando un’adduzione forzata con corde vocali allungate, tensione longitudinale aumentata, adduzione spesso incompleta, corde avvicinate alla linea mediana e vocal-tract irrigidito nel suo tratto medio. La voce che ne risulta è penetrante, acuta, tesa o aspra e la qualità della comunicazione è tagliente, provoca una lacerazione, nell’orecchio prima, nell’animo dell’ascoltatore poi.
Altre emozioni reclutanti l’attività sfinterica laringea, ma con finalità diversa, sono la sorpresa e la paura: entrambi questi stati emozionali si accompagnano alla mesa in atto di una subitanea chiusura glottica a seguito di una ripresa inspiratoria rapida e profonda. Mentre nella paura la glottide arriva alla chiusura completa, nella sorpresa le corde vocali si posizionano abitualmente in paramediana e il mantice rimane espanso, senza una vera chiusura glottica. Nella paura l’adduzione completa collabora alla stabilizzazione del tronco, con la conseguente facilitazione della messa in atto di una resistenza ad un probabile attacco o della produzione di una reazione motoria a carico soprattutto dell’arto superiore. Nella sorpresa l’inspirazione con sospensione a corde avvicinate, ma non completamente addotte, prepara a “dare un nome” a ciò che ha sorpreso e, in questo modo, attraverso l’attribuzione dell’oggetto a un campo semantico noto, a superare l’emozione stessa.

2. Tratti sovrasegmentali del linguaggio vocale.

2.1. Elementi paralinguistici.
Esistono una serie di caratteristiche vocali con cui il locutore arricchisce e rende comprensibile il proprio discorso: tono, sonorità, timbro, tempo e suoni non verbali. Queste caratteristiche vengono definite come tratti paralinguistici o sovrasegmentali; l’uso conversazionale del linguaggio parlato non può essere compreso completamente a meno che non si tenga conto degli elementi paralinguistici.
In un saggio del 1958, “Paralanguage: a first approximation”, George L. Trager identifica tre classi principali di tratto vocalico: tipo di voce (legato a fattori fisiologici), qualità vocale (ovvero tutto ciò che riguarda altezza dei suoni, articolazione, risonanze…), e vocalizzazione (ovvero i suoni stessi), ulteriormente analizzata in caratterizzatori vocali (riso, pianto, singhiozzo, strillo…), qualificatori vocali (intensità e altezza del suono) e segregati vocali (suoni extra–fonetici: per esempio della lingua e delle labbra). Questa è la classificazione dei suoni “senza parola”, non linguistici, ma comunque comunicativi. Il riso, la pernacchia, il pianto, il lamento, il sospiro, lo schioccare della lingua sono tutti segnali incontrollati e spontanei che smascherano la voce e il corrispettivo locutore, che permettono di mandare e comunicare messaggi oltre la contaminazione della parola.
Quando in campo medico ci sono ragionevoli sospetti per attribuire ad un’afonia la matrice isterica basta indagare sulle possibilità sonore della laringe: se mancano sia la parola che la tosse si tratta di flogosi, se c’è la tosse ma non la parola si tratta di una “ferita comunicativa”. Un’afonia irritativa può trarre vantaggio da un anti-flogistico, ma un silenzio selettivo ha solo bisogno di ascolto. Sono dunque queste piccole “tracce vocali” non verbali che permettono di abbandonare la falsa pista della Parola, per andare direttamente all’interiorità del locutore.
La maggior parte della ricerca che si muove in questa direzione è concentrata su aspetti riguardanti i tratti vocali, in particolare le capacità espressive, comunicative e modulanti; queste ultime vengono prese come indice dello stato psicologico ed emotivo del parlante. I Tests di J.L. Davits sulle connotazioni emotive, associate alle caratteristiche della voce, sono di grande interesse: sono state individuate otto emozioni associate dai soggetti a particolari combinazioni di tratti vocali, l’espressione dell’atteggiamento o del sentimento sembra essere fortemente regolata (codificata), ogni qual volta sia implicata la scelta di marcatori vocali.
Non a caso i tratti paralinguistici costituiscono uno dei più antichi aspetti dell’arte dell’attore. Sappiamo che è possibile recitare la parte di Amleto in un centinaio di modi diversi, tutti compatibili con i riferimenti semantici fondamentali attivati dal testo. Un bravo attore può sfoderare un vastissimo repertorio di indicatori vocali. Le attività vocali opzionali dell’attore, non previste dal sistema fonologico della lingua, portano, insieme all’informazione drammatica (relativa al personaggio), un alto grado d’informazione (segnica) estetica. Tale informazione segnica ha l’effetto, inoltre, di attirare l’attenzione verso il tessuto materiale del linguaggio verso la sostanza dell’espressione e così di ostenderlo come un avvenimento fonico. E’ l’elaborazione paralinguistica del messaggio che permette ad esso di riempire lo spazio acustico.
Un’altra teoria particolarmente ricca e articolata è quella dello psicologo tedesco Klaus Scherer. L’ipotesi di base è che l’emozione sia prodotta da un certo numero di controlli valutativi dello stimolo che si susseguono sempre in un certo ordine. Ciascun controllo comprende poi alcuni sottocontrolli più dettagliati. Indichiamo qui di seguito l’ordine seriale di questi controlli:
1) controllo della novità;
2) controllo della piacevolezza o spiacevolezza intrinseca dello stimolo;
3) controllo della rilevanza in relazione allo scopo e ai bisogni;
4) controllo del potenziale di adattamento;
5) controllo della compatibilità dell’evento con le regole e le norme sociali o con il Sé ideale.
Un’emozione può essere il risultato di alcuni o di tutti questi controlli. Un’emozione è dunque un processo articolato e multicomponenziale che si attiva nell’incontro con stimoli rilevanti i quali danno luogo ad un processo valutativo che causa un cambiamento di stato dei cinque principali sistemi che compongono l’organismo: il sistema cognitivo, il sistema fisiologico, il sistema esecutivo, il sistema di espressione motoria, il sistema che produce i sentimenti soggettivi. Secondo Scherer, si può parlare di emozione in senso proprio solo quando, a seguito di una valutazione cognitiva e cioè di una modificazione del sistema cognitivo, si ha una modificazione organizzata e strutturata negli altri sistemi sopra descritti. Un aspetto decisamente interessante di questa teoria consiste nel tentativo di mettere in relazione, attraverso modelli teorici e ricerche empiriche, i processi valutativi dello stimolo con
le loro conseguenze su alcuni dei sistemi dell’organismo.
L’attenzione di Scherer si è focalizzata sulle modificazioni espressive a livello facciale e vocale; la vocalizzazione delle emozioni negli animali fornisce una base di partenza per l’esplorazione dell’effetto dell’attivazione emotiva sul comportamento animale. Seguendo le antiche speculazioni di Darwin, Scherer sostiene l’esistenza di continuità evolutive nell’espressione vocale delle emozioni. Mentre la valutazione cognitiva dei segnali situazionali e i conseguenti processi emotivi sono molto più differenziati nelle specie superiori, la natura dei componenti di base dell’emozione, come la valutazione delle situazioni, i pattern di attivazione fisiologica che governano l’erogazione di energia dell’organismo e le modalità tipiche di comportamento sono tutti piuttosto simili. Le caratteristiche acustiche delle vocalizzazioni emotive sono probabilmente indicative degli stati emotivi sottostanti in chi le emette, in modo tanto attendibile quanto lo sono i richiami degli animali rispetto ai loro specifici stati motivazionali.
Sappiamo che durante l’evoluzione della specie umana, l’apparato di produzione dei suoni si è modificato. Benché si siano verificati notevoli cambiamenti nelle strutture neuroniche e motorie per permettere la produzione del linguaggio, questa funzione si è sovrapposta a quelle precedenti della vocalizzazione emotiva, e così nel parlato umano troviamo una commistione molto intricata di componenti di vocalizzazione emotiva filogeneticamente molto antiche e componenti linguistiche filogeneticamente molto recenti. Perciò molti dei tratti prosodici e paralinguistici, come la variazione della frequenza fondamentale, l’intensità, la distribuzione dell’energia nello spettro, o anche alcuni pattern temporali e ritmici, svolgono un ruolo fondamentale nella “marcatura” degli stati emotivi, pur assolvendo anche funzioni linguistiche.
Nonostante la pervasività delle emozioni umane, è molto difficile che queste possano venire, per così dire, catturate a mezzo di un’oggettiva indagine empirica. Ciò è dovuto in primo luogo al fatto che in molte culture le emozioni sono considerate esperienze private, che in pubblico vengono celate, compresse o ritualizzate; inoltre è estremamente difficile riprodurre le emozioni in laboratorio. Per questi motivi il numero degli studi sui correlati acustici del linguaggio emotivo è molto limitato, ma nonostante tutto il pattern di risultati che emerge è sorprendentemente coerente, il che sembra documentare la stabilità e forza degli effetti delle emozioni sulla voce e sul parlato.
In primo luogo, sembra che fra gli indicatori vocali vi sia un grado piuttosto elevato di covariazione. Si possono distinguere due classi di caratteristiche acustiche, una contraddistinta da alta frequenza fondamentale, ampia gamma e variabilità della formante (FO), grande estensione o intensità, e alta velocità, e l’altra contraddistinta da bassa frequenza fondamentale, gamma ristretta e scarsa variazione, bassa intensità e bassa velocità. Le situazioni in cui una persona si imbatte in uno stimolo spiacevole, determinano vocalizzazioni chiamate: urla, strilli, grida, lamenti etc… La maggior parte di queste vocalizzazioni hanno una frequenza fondamentale piuttosto alta e una concentrazione di energia nelle gamme superiori dello spettro. E’ interessante notare le caratteristiche onomatopeiche delle parole che si riferiscono a questi suoni in molte lingue: spesso vocali palatali alte come [e] e [i] occupano la porzione centrale della parola. Dall’altra parte, le situazioni di benessere, sono caratterizzate fondamentalmente dalla concentrazione dell’energia nella gamma di frequenza media e da una frequenza fondamentale più bassa. La combinazione alta frequenza / ampia estensione / alta velocità sembra corrispondere ad un alto grado di attivazione psicofisiologica, mentre la seconda combinazione sembra caratteristica di un basso livello di attivazione, almeno nei termini del sistema ergotropico. La dicotomia non è però così semplice e la gamma dei parametri vocali è sicuramente molto ampia.
E’ comunque plausibile assumere che se emozioni diverse sono di fatto caratterizzate da particolari combinazioni di indicatori vocali, gli ascoltatori dovrebbero essere in grado di distinguerle sulla base delle sole manifestazioni vocali. Se invece nelle caratteristiche acustiche si riflettono soltanto dimensioni alquanto generali, come l’attivazione, gli ascoltatori dovrebbero essere capaci solo di collocare le manifestazioni emotive su dimensioni di questo tipo. E’ difficile stabilire l’accuratezza con cui le interpretazioni vocali delle emozioni possono essere lo spazio dimensionale dell’espressione emotiva.
Nonostante queste lacune, l’esame dei dati empirici sul riconoscimento delle emozioni in base a segnalatori vocali e linguistici è abbastanza istruttivo. Uno dei possibili approcci empirici consiste nel tentare di manipolare in modo sistematico questi segnalatori vocali. In alcuni studi Scherer ha fatto uso di un sintetizzatore Moog allo scopo di variare sistematicamente le configurazioni dei segnalatori acustici, e si è chiesto ai giudici di attribuire loro i corrispondenti stati emotivi.
Vengono riportati i risultati principali di questi studi:

Parametri acustici delle sequenze di intonazione che contribuiscono significativamente alla varianza nell’attribuzione di stati emotivi. (Versione riveduta da Scherer e Oshinsky, 1977)

Scala di valutazione:
Singoli parametri acustici (fattori significativi) e configurazioni (interazione tra parametri) elencati secondo la loro forza predittiva.

Piacevolezza

Velocità alta, poche armoniche, ampia variazione di tonalità, contorni netti, tonalità profonda, contorno di tonalità discendente, scarsa variazione di estensione (configurazione saliente: ampia variaz. di tonal. più contorno di ton. discendente).

Attività Velocità alta, tonalità acuta, numerose armoniche, ampia variazione di tonalità, contorni netti, scarsa variaz. di estensione.

Rabbia Armoniche numerose, alta velocità, tonalità acuta, contorni arrotondati, contorno di tonalità ascendente (configurazioni salienti: ampia variazione di estensione più tonalità acuta, tonalità acuta più armoniche numerose).

Noia Velocità bassa, tonalità profonda, poche armoniche, contorno di tonalità discendente,
contorni arrotondati, scarsa variazione di tonalità.

Disgusto Armoniche numerose, scarsa variazione di tonalità, contorni arrotondati, bassa velocità (configurazione saliente: scarsa variazione di tonalità più contorno di tonalità ascendente).

Paura Contorno di tonalità ascendente, sequenza rapida, numerose armoniche, tonalità acuta, contorni arrotondati, scarsa variazione di tonalità (configurazioni salienti: scarsa variaz. di ton. più contorno di tonalità ascendente, alta velocità, più numerose armoniche).

Contentezza Velocità alta, ampia variaz. di ton., contorni netti, poche armoniche, moderata variazione di estensione (configurazioni salienti: ampia variazione di tonalità più contorno di tonalità ascendente, alta velocità più poche armoniche).

Tristezza Velocità bassa, tonalità profonda, poche armoniche, contorni arrotondati, contorno di
tonalità discendente (configurazione saliente: tonalità profonda più bassa velocità).

Sorpresa Velocità alta, tonalità acuta, contorno di tonalità ascendente, contorni netti, ampia variazione di tonalità (configurazione saliente: tonalità acuta più alta velocità).

2.2. Tratti intonativi.

Esiste un ambito in cui la problematica della mediazione verbale si pone con urgenza: quello della musica vocale sul testo letterario. Se un ascoltatore non comprende le parole cantate in una melodia, che cosa può recepire della musica ascoltata? Se il messaggio gli rimane accessibile poiché le parole non sono essenziali, come riesce a codificarlo?
Nella misura in cui la voce è, per l’uomo, anzitutto l’organo della parola, non appena essa interviene in musica viene ad essere presente il linguaggio in quanto tale, e ciò anche se il canto si sviluppa in puri melismi, anche se il testo diventa del tutto incomprensibile. Ovvero, l’ascoltatore che non comprende le parole di una melodia (ad esempio perché non ne conosce la lingua) nondimeno coglie delle intonazioni, degli accenti e delle espressioni vocali che, per quanto deformate, amplificate o spostate dalla musica, gli sembrano appartenere ad un messaggio verbale definito. Vengono percepiti entusiasmi, dubbi, tristi abbandoni, affermazioni, lamenti, invocazioni, grida che costituiscono una sorta di espressività propria della voce, una espressività di linguaggio senza parole.
I tratti intonativi costituiscono, come tratti fonematici, delle unità discrete, localizzabili in un punto determinato dell’asse sintagmatico. Sembra inoltre dimostrato che il sistema delle unità intonative assuma, sia isolatamente, sia in associazione con le strutture sintattiche o con le strutture semantiche, un insieme di funzioni distintive principali, indispensabili ad una decodifica corretta dell’enunciato.
Si può dunque pensare che proprio grazie all’identificazione di intonemi specifici nella curva melodica musicale avviene l’interpretazione del senso delle parole cantate, siano esse comprese dall’ascoltatore in maniera ambigua o lo siano solo in parte o non lo siano affatto. Deboulonne e Laloux, con un’ipotesi generale così enunciata, dichiarano di aver constatato ripetutamente che quanto più il messaggio è chiuso (quanto meno richiede o ammette un complemento), tanto più la curva dell’intonema è discendente; quanto più il messaggio è aperto (quanto più è importante il complemento richiesto o sottinteso), tanto più la curva è ascendente. Ciò conduce a formulare la seguente ipotesi: siccome la curva è proporzionale alla tensione delle corde vocali, l’intonazione sarebbe interpretabile ed interpretata in funzione di questi criteri fisiologici, della sua immagine psico-motoria. Ovvero, la tensione o piuttosto gli schemi di tensione e distensione sono costituiti in base a rappresentazioni psico-motorie e posturali e legati alle emozioni ed ai sentimenti che li accompagnano. In tal senso l’intonazione è motivata almeno nel suo principio.
Una serie di esperimenti mostrano chiaramente il ruolo di imitazione intonativa svolto dalla parola come modello percettivo ed espressivo del canto, almeno per quanto riguarda gli intonemi, ossia le direzioni vocali verso il grave e l’acuto. Essi mostrano anche il ruolo dell’armonia e della sintassi. Resta il fatto però che altri fattori, nel linguaggio, possiedono per chi lo parla un evidente potere espressivo e intervengono a modificare l’interpretazione semantica degli intonemi. In linea di massima tali fattori sono al velocità di elocuzione, l’intensità, l’articolazione e l’estensione del registro. Uno studio comparato tra soggetti musicisti e non musicisti, indaga su questi fattori intervengono nel canto.
Sono state raccolte una serie di sequenze vocali tratte da opere di Monteverdi e di Haendel. Parallelamente è stata stesa una lista di 10 parole che potessero eventualmente riassumere il senso delle sequenze stesse. Il compito dei soggetti era quello di assegnare alle sequenze ascoltate un valore da 0 a 5 rispetto a “parole-scala” utilizzate per misurare tali valori. Tuttavia, per controllare gli spetti realmente percepiti, prima di intraprendere il loro compito di indicizzare le sequenze in base alle parole-scala, i soggetti erano invitati a pronunciarsi sulle caratteristiche delle sequenze. L’elaborazione dei risultati consisteva infine nel determinare, per ciascuna sequenza, i significati prodotti con maggior frequenza e a porre in rapporto gli indici numerici fissati in base alle parole-scala con le caratteristiche percepite dai soggetti. I risultati ottenuti permettono di descrivere, per ciascuna parola-scala, un profilo musicale medio risultante dalle sequenze cui corrispondono gli indici elevati. La curva melodica ascendente suggerisce apertura del messaggio e tensione, la curva discendente suggerisce chiusura del messaggio (ordine, minaccia, affermazione, constatazione) o inibizione dell’azione del soggetto (sorpresa, inquietudine). Inoltre, per quanto riguarda gli altri fattori che assieme agli intonemi intervengono nel linguaggio, l’esperimento dà luogo ad una serie di gruppi di opposizioni che vengono presentati nella Tavola 4.
Nell’insieme si verifica che i soggetti non musicisti percepiscono ed interpretano i significati quasi con la medesima facilità dei musicisti in base alle caratteristiche musicali delle sequenze melodiche. Bisogna dunque concludere che l’espressività della musica cantata viene percepita e compresa come una trasposizione del sistema intonativo del linguaggio verbale e che i soggetti si riferiscono implicitamente a questo per “seguire” il canto di cui non comprendono le parole ma che, per il fatto stesso della presenza di queste parole, provoca le assimilazioni agli schemi di tensione psico-motori sulla base delle esperienze intonative linguistiche. Questa comprensione sembra indipendente dal livello di educazione musicale.

2.3. Fonosimbolismo.

Il termine fonosimblismo designa sia fatti pertinenti all’esperienza “prelinguistica”, delle sinestesie evocate da stimoli acustici, sia fatti presenti nelle lingue vere e proprie.
Per quanto riguarda le sinestesie prelinguistiche, la situazione sperimentale creata da W. Kohler al fine di mettere in luce l’esistenza di un vissuto di congruenza o di isomorfismo gestaltico tra le qualità percepite in alcuni stimoli fonetici senza senso e quelle percepite in stimoli visivi ugualmente senza senso, è da collocarsi all’origine di un ampio filone di ricerche. Un approccio simile fu utilizzato anche da E. Sapir, il quale creava “neologismi” sulla base di opposizioni vocaliche, presentandole ai soggetti come parole di un linguaggio a loro sconosciuto, nel quale designavano un preciso oggetto, ma l’una di grandi dimensioni e l’altra di piccole: i soggetti dovevano “indovinare” quale parola si riferiva all’oggetto grande e quale all’oggetto piccolo. Nel 1963, Werner e Kaplan, hanno elaborato un modello delle attività simboliche che postula il passaggio da uno stato iniziale di globalità e indifferenziazione ad uno di progressiva differenziazione e polarizzazione, sottolineando che nei modi primitivi di espressione la forma simbolica utilizzata e il referente (il significante e il significato) sono strettamente fusi tra loro e quasi consustanziali. A livello linguistico ciò si manifesta in un’ampia predilezione da parte del bambino che apprende il linguaggio (o dei popoli primitivi), del cosiddetto linguaggio “fisiognomico”, basato sulle onomatopee e sulle qualità fonosimboliche. Il bambino ricava piacere nel combinare suoni privi di senso o nel costruire neologismi con valore onomatopeico.
Stern e Stern hanno cercato di individuare alcuni nuclei significativi già nelle prime lallazioni infantili, parlando di suoni con valore centripeto (le nasali) oppure centrifugo (le occlusive), che starebbero alla base delle figure parentali, cioè la madre e il padre e di vissuti piacevoli o spiacevoli. Lo stesso tema è stato poi ripreso, con maggior rigore scientifico e sulla base di una ricca documentazione etnologica, da Jakobson. Una correlazione tra l’emissione di suoni “duri”, specie occlusive laringali, negli stati di malessere e, al contrario, di suoni più “dolci” negli stati di benessere, è stata osservata nei lattanti da Tischler.
Fenomeni analoghi riguardo al linguaggio infantile sono stati diffusamente osservati dagli studiosi dei linguaggi dei popoli primitivi. In tali lingue sono altamente valorizzate le qualità espressive dei fonemi, cioè privilegiate le parole il cui suono appare accordato con il senso. Ad esempio: [i] si trova spesso nei concetti di piccolo, svelto o acuto; [o] [e] [a] in quelli di grande e lontano; [k] nelle designazioni della forza, tenacia, decisione; [m] e [n] al contrario, in quelle di ciò che è molle, inerte, esitante. A proposito dei linguaggi dell’Africa occidentale, Westermann, afferma che in essi sono frequenti le parole che chiama “Lautbilder” o “immagini sonore”, cioè significati che riproducono in forma mimetica il contenuto di un’impressione sensoriale. Il linguaggio si appoggia qui ancora strettamente al singolo fatto concreto e alla sua immagine sensibile, tanto che cerca di darne per così dire un’immagine esauriente col suono e non si accontenta di una designazione generale, ma accompagna ogni particolare sfumatura del fatto con una particolare sfumatura della voce, appropriata ad esso.
Una delle costanti che si ritrovano presso molti sostenitori dell’esistenza di un rapporto motivato tra il suono e il senso della parola è la credenza che questa sia stata la modalità fondamentale attraverso cui è sorto il linguaggio e che, dunque, tale rapporto sia particolarmente evidente e pregnante nel linguaggio originario dell’umanità, mentre si è poi progressivamente diluito e alterato nel corso dell’evoluzione linguistica. (Dogana 1983) L’onomatopea rappresenta il caso, relativamente, più semplice e universalmente riconosciuto di mimesi del significato ad opera del significante. Esistono una grande quantità di casi in cui si verifica una precisa congruenza fra qualità del mondo fisico e qualità del materiale fonetico in grado di simbolizzarle.
Quando l’isomorfismo non è più riferito ai caratteri fisici della realtà, bensì a quelli interni dei vissuti psicologici, delle emozioni e degli stati d’animo, si possono individuare soprattutto due processi: la trasposizione “metaforica” (componente astratta) e la trasposizione “sintomatica” (componente organismica). Rispetto a quest’ultima, l’approccio più sistematico è probabilmente quello di Trojan, il quale muove innanzitutto da una classificazione delle varie forme di emozione, secondo cui esse possono essere poste in relazione con due principali tipi di funzioni organismiche: quelle “ergotrope”, connesse all’attività rivolta al mondo esterno, alla conquista, acquisizione o difesa dei valori, e quelle “trofotrope”, connesse con il riposo, il godimento e la rigenerazione delle energie. Diverse tonalità emotive si strutturano dunque su precise basi neurofisiologiche. I principali “indicatori” acustico-articolatori sono per Trojan soprattutto i seguenti: pressione espiratoria e tensione della muscolatura articolatoria, apertura faucale, registro, nasalità, quantità di fiato.
I vari fenomeni fonosimbolici possono quindi essere ricondotti a tre principali categorie: si parlerà di simbolismo ecoico per riferirsi ai casi di onomatopea; simbolismo sinestesico per indicare i casi in cui lo stimolo fonetico evoca esperienze pertinenti ad altre dimensioni sensoriali; e di simbolismo fisiognomico per indicare i casi in cui l’espressività concerne il mondo dell’esperienza emotiva o psicologica in generale.

Concludendo possiamo dire che i suoni “prelinguistici” hanno sempre valenze espressive, valenze che generalmente perdono, una volta inseriti nel sistema linguistico, che ha adottato il principio dell’arbitrarietà, ma che sono pronte ad emergere quando il significato e la funzione della parola lo consentono. E’ inoltre importante considerare che: il singolo fonema è una costellazione di tratti e il privilegiamento dell’uno o dell’altro può dar luogo ad esiti espressivi differenti e talvolta opposti. Il fonosimbolismo si identifica per il ricorso alla modalità “analogica” anziché “digitale” o arbitraria, e può essere considerato un residuo di forme espressive arcaiche, caratterizzate da una maggiore integrazione tra significante e significato.

Bibliografia

– Anolli L. e Ciceri R., La voce delle emozioni, Franco Angeli 1997.
Cadonici P., La voce. Dall’immaginario al Reale. Tra Arte, Mito e Fiaba, Rubettino, Catanzaro 2000.

– Bertirotti A., Cenni storici sul pensiero etnologico e antropologico culturale, Santa Croce Editore, Parma 2004.

– Camaioni L., Volterra V., Bates E., La comunicazione nel primo anno di vita, Boringhieri, Torino
1976.

– Dogana F., Suono e senso. Fondamenti teorici ed empirici del simbolismo fonetico, Franco Angeli, Milano 1983

– Elam K., Semiotica del teatro, Il Mulino, Bologna 1988.

– Imberty M., Suoni Emozioni Significati. Per una semantica psicologica della musica, Clueb, Bologna 1986.

– Morris M., 2001, La scimmia Nuda. Studio zoologico sull’animale uomo , Edizioni Bompiani, Milano.

– Tomatis A., Ascoltare l’universo. Dal Big Bang a Mozart, Baldini & Castoldi, Milano 2005.